Il Teatro della Vita
Torino.
La porta di quel vecchio teatro non avrebbe dovuto essere aperta. Marco lo sapeva, come sapeva che l'edificio era stato abbandonato tre anni prima, quando l'ultima compagnia teatrale aveva dichiarato bancarotta. Eppure il battente di legno scuro cedette alla prima spinta, cigolando sui cardini arrugginiti.
"C'è nessuno?" La sua voce riecheggiò nella penombra, assorbita dai velluti logori e dalle decorazioni dorate che la polvere aveva reso opache. Si avventurò con timore al suo interno e raggiunse il foyer dove vecchi manifesti di spettacoli pendevano storti dalle pareti scrostate, i nomi degli attori sbiaditi e illeggibili sotto il peso degli anni. Si stava ancora abituando a quella luce quando un movimento nella platea lo fece sussultare. Una figura sedeva nella poltrona centrale, immobile come se fosse sempre stata lì. Un uomo anziano, le spalle curve sotto un cappotto di lana grigia, le mani nodose appoggiate sui braccioli consumati.
"Maestro Giuliano?"
L'uomo alzò lentamente la testa. I suoi occhi, inaspettatamente vivaci in quel volto segnato dalle rughe, studiarono Marco per un lungo momento.
"Tu sei il ragazzo di cui mi ha parlato Teresa."
Non era una domanda. Marco annuì, sorpreso che la portiera del convitto avesse davvero mantenuto la promessa.
Si era trasferito l’anno prima a Torino per motivi di studio e subito aveva trovato difficile l'ambientamento, così aveva preso a confidarsi con lei, specie nei momenti di maggior sconforto quando, complice la nostalgia di casa, si abbandonava alla malinconia. Nei mesi successivi le aveva raccontato della sua famiglia a Roma e sui dubbi che la vita gli stava ponendo d’avanti. Lei, una donna minuta con occhi gentili, lo ascoltava sempre pazientemente.
"Vai al vecchio teatro", gli aveva detto. "cerca il Maestro. Lui sa sempre cosa dire ai giovani che si sono persi."
Ecco perché ora Marco si trovava lì, in quel teatro dimenticato. Aveva seguito il suo consiglio, spinto più dalla disperazione che dalla curiosità, e ora si trovava faccia a faccia con un uomo anziano dai capelli bianchi che sembrava aspettarlo da sempre.
" Come fa a essere qui dentro?" chiese Marco, avvicinandosi cautamente. "Non dovrebbe essere chiuso?"
Giuliano sorrise, e per un attimo le rughe intorno ai suoi occhi sembrarono tracce di antiche risate piuttosto che segni del tempo. "Conosco questo posto da settant'anni. Le serrature e io abbiamo raggiunto un accordo."
Marco si fermò a metà della navata centrale, incerto. L'atmosfera del teatro lo intimidiva; fissò le file di poltrone rosse che sembravano aspettare spettatori mai arrivati, il palcoscenico nascosto da un sipario pieno di polvere che un tempo doveva essere stato bordeaux e ora appariva quasi nero.
"Perché sta qui? In questo posto?"
"Perché aspetto chi prima o poi viene a cercarmi," rispose il Maestro, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
"Siediti. Raccontami."
Marco esitò ancora, poi si lasciò cadere in una delle poltrone della prima fila. La stoffa era sorprendentemente morbida, nonostante l'abbandono.
"Non so da dove iniziare."
"Inizia dalla fine. Cosa ti fa più paura?"
La domanda lo colse di sorpresa. Marco si aspettava di dover spiegare tutto dall'inizio: l'università di Economia che non lo soddisfaceva, i genitori che avevano investito i loro sogni sul suo futuro, la sensazione di vivere una vita che non gli apparteneva. Invece si ritrovò a dire:
"Ho paura di scegliere la cosa sbagliata e di accorgermene quando sarà troppo tardi."
Giuliano annuì lentamente. "E qual è questa scelta che ti terrorizza tanto?"
Alzò lo sguardo verso Giuliano con gli occhi lucidi. "Come si fa nella vita a sapere quando è il momento giusto per rischiare tutto?"
Riabbassò lo sguardo e rimase in silenzio. Passarono degli istanti che sembrarono un’eternità.
Alla fine Marco, mentre sentiva il calore salirgli alle guance, disse con voce flebile, quasi un sussurro, "C'è una ragazza. Sofia. Studia fotografia all'Accademia. Ha ricevuto un'offerta di stage al Tate Modern di Londra. Parte giovedì."
"E...?"
"E mi ha chiesto di andare con lei."
Le parole gli uscirono di getto, come se le avesse tenute prigioniere troppo a lungo.
"Dice che potrei trovare lavoro lì, che potremmo costruire qualcosa insieme. Ma significherebbe lasciare tutto: l'università, la famiglia, i progetti che... che in realtà non sono nemmeno miei."
Il Maestro non rispose subito. I suoi occhi si mossero lentamente sulla platea vuota, come se vedesse qualcosa che Marco non riusciva a percepire.
"Quanti anni hai?"
"Ventitré."
"Ah, ventitré." Giuliano sospirò. "L'età in cui tutto sembra possibile e impossibile allo stesso tempo."
Marco aspettò che continuasse, ma il vecchio sembrava perso nei suoi pensieri. Il silenzio del teatro li avvolse, rotto solo dal ticchettio di un orologio nascosto da qualche parte nel buio.
"Maestro?"
"Dimmi una cosa," disse Giuliano alzandosi lentamente dalla poltrona. "Quando guardi questa platea, cosa vedi?"
Marco guardò le file di sedili vuoti. "File di poltrone rosse. Tutte uguali, tutte vuote."
"Tutte uguali?" Il Maestro camminò verso il palcoscenico, con le scarpe che risuonavano sul parquet scricchiolante. "Guardala meglio. Veramente."
Marco si concentrò. Era solo una normale platea di teatro: file parallele che si allargavano man mano che si allontanavano dal palco, disposte a ventaglio. Niente di straordinario.
"Non vedo niente di particolare."
Giuliano si fermò davanti al sipario chiuso, vi appoggiò una mano come se stesse accarezzando un vecchio amico. "Quando avevo la tua età, nemmeno io vedevo alcunché di particolare. Ero troppo occupato a cercare il mio posto nel mondo per accorgermi che tutto, intorno a me, aveva una sua geometria perfetta."
Si voltò verso Marco e, alla luce fioca dei lampadari impolverati, il suo viso sembrava ancora più giovane.
"Mi innamorai di una ballerina. Si chiamava Elena. Capelli rossi come il fuoco, occhi verdi come il mare d'estate. Danzava l'Odette nel Lago dei Cigni e quando la vedevo sul palco..." scosse la testa, "credevo che il mio cuore si sarebbe fermato per la bellezza."
Marco si sporse in avanti, dimenticando per un momento i suoi problemi.
"Cosa accadde?"
"Le chiesi di sposarmi. Avevo ventidue anni, lei ventisette. Ero giovane, stupido, convinto che l'amore bastasse per tutto." Giuliano tornò verso la platea, ma non si sedette.
"Lei sorrise con dolcezza e mi accarezzò il viso. Giuliano, mi disse, tu credi di amarmi, ma ami l'idea di me. Un giorno capirai la differenza, e forse allora saprai cosa significa amare davvero."
"E lo capì?"
"Ci vollero vent'anni."
Il Maestro si fermò a metà della navata. "Ma quando lo capii, era troppo tardi per dirglielo."
C'era qualcosa nel tono di quella confessione che fece venire la pelle d'oca a Marco. "Era morta?"
"No. Peggio. Era diventata felice con qualcun altro."
Il teatro cadde di nuovo nel silenzio. Marco sentiva il peso di quella storia posarsi su di lui come una coperta.
"Ma cosa c'entra questo con la platea?"
Giuliano sorrise e questa volta il sorriso aveva qualcosa di misterioso. "Ora te lo mostro. Ma prima dimmi: hai mai sentito parlare della geometria dell'anima?"
"No."
"Allora chiudi gli occhi e immagina." La voce del Maestro si fece più profonda, quasi ipnotica. "Immagina che questa platea non sia disposta come tutte le altre. Immagina che le poltrone formino un triangolo perfetto. In prima fila, quella più vicina al palco, c'è una sola poltrona. Solitaria, maestosa, al centro esatto. Nella seconda fila ce ne sono due. Nella terza quattro. Nella quarta otto. E così via, raddoppiando sempre, fino alle ultime file dove ce ne sono centinaia."
Marco tenne gli occhi chiusi, visualizzando quella disposizione impossibile.
"La vedi?"
"Sì."
"Ora aprili."
Marco aprì gli occhi e per un istante - solo un istante - gli sembrò davvero di vedere quella geometria impossibile. Le poltrone che si moltiplicavano verso il fondo, formando un triangolo perfetto con il vertice rivolto verso il palco.
"Ogni poltrona," sussurrò Giuliano, "è un'emozione che hai provato, che provi, che potresti provare. Il primo bacio che ti ha fatto tremare le mani. La rabbia per un'ingiustizia. La paura di una scelta. La gioia di una mattina di primavera quando avevi otto anni e tutto sembrava possibile."
Marco sentì il cuore accelerare. "Ma perché questa forma?"
"Perché quando sei giovane, come te ora, vivi nelle file più lontane dal palco. Quelle con centinaia di poltrone. Puoi sedere dovunque, saltare da un posto all'altro, sentire tutto contemporaneamente. Puoi innamorarti di tre ragazze diverse nello stesso mese, sognare di diventare poeta, astronauta, rivoluzionario. Hai un ventaglio infinito di possibilità."
Il Maestro fece una pausa, lo sguardo che si perdeva nel vuoto del teatro.
"Ma poi accade qualcosa di magico e terribile. Man mano che vivi, che scegli, che invecchi, ti avvicini al palco. Le file hanno meno posti. Non puoi più sedere ovunque. Alcune emozioni scompaiono per sempre, altre si raffinano, diventano più pure, più profonde."
"Suona... triste," mormorò Marco.
"Pensavo anch'io così, una volta. Finché non capii che avvicinarsi al palco significa vedere meglio. Quando ero nelle file di fondo, come te, credevo che tutto fosse amore. Ogni farfalla nello stomaco, ogni battito accelerato, ogni notte insonne. Ma erano solo... echi. Riflessi. L'amore vero l'ho conosciuto molto più tardi, quando mi sono ritrovato in quinta fila."
"Con Elena?"
Giuliano scosse la testa. "Con Maria. La sposai a quarant'anni. Lei ne aveva trentacinque, faceva la maestra elementare. Non era bella come Elena, non mi faceva tremare le mani ma quando la guardavo, sentivo... pace. Come se fossi finalmente arrivato a casa."
"E ora? In che fila si trova ora?"
Il vecchio si sedette nella poltrona accanto a Marco. "Seconda fila. Ci sono solo due posti lì davanti. Uno è occupato dal rimpianto per Maria - è morta tre anni fa, cancro ai polmoni. L'altro dalla gratitudine per tutto quello che abbiamo condiviso."
Marco sentì una stretta al petto. "E la prima fila? Quella con una sola poltrona?"
"Ah, quella..." Giuliano si appoggiò allo schienale, gli occhi che brillavano nell'ombra. "Quella poltrona è nascosta dal sipario. Non possiamo vedere cosa c'è sul palco finché non siamo seduti lì. È il mistero finale. L'ultima emozione, purissima, distillata da tutta una vita vissuta."
"Ha paura?"
"Di morire? No." Il Maestro sorrise. "Ho paura di non essere pronto. Di arrivare a quella poltrona senza aver capito se la mia esistenza è stata una commedia o un dramma."
Un lungo silenzio scese tra loro. Marco guardò di nuovo la platea e questa volta riuscì davvero a vederla: il triangolo perfetto delle emozioni, con sé stesso seduto nelle file più lontane, circondato da migliaia di possibilità.
"Sofia parte giovedì," disse alla fine.
"E tu cosa farai?"
"Non lo so. Ecco il problema, non lo so."
Giuliano si alzò, dirigendosi lentamente verso l'uscita. "Marco."
"Sì?"
"L'incertezza è un lusso che si può permettere solo chi ha ancora centinaia di poltrone davanti a sé. Goditela finché puoi."
"Ma come faccio a scegliere?"
Il Maestro si fermò sulla soglia, la mano sulla maniglia. "Non devi scegliere la poltrona giusta. Devi scegliere la tua poltrona. Il teatro non sbaglia mai, ricordalo."
"Aspetti!" Marco scattò in piedi. "Non può lasciarmi così!"
"Ti ho già detto tutto quello che serviva sapere."
"Cioè?"
"Che qualunque fila sceglierai, ti porterà più vicino a chi sei veramente. E che ogni poltrona abbandonata è un pezzo di te che hai imparato a lasciare andare."
La porta si richiuse dietro di lui con un tonfo sordo. Marco rimase solo tra le ombre danzanti del teatro, ma per la prima volta da settimane non si sentiva perso.
Si alzò, guardò un'ultima volta la platea - ora tornata normale, file parallele di poltrone rosse - e uscì nella luce del pomeriggio.
Due giorni dopo, all'aeroporto di Caselle, Marco teneva in mano due biglietti: uno per Londra Heathrow, uno di ritorno a Roma. Sofia era accanto a lui, bellissima nella sua incertezza, gli occhi che lo pregavano di salire sull'aereo con lei.
"Allora?" gli chiese.
Marco guardò i due biglietti, poi lei, poi il tabellone delle partenze. Da qualche parte nella sua mente, migliaia di poltrone invisibili aspettavano la sua decisione.
Sorrise e, per la prima volta in vita sua, non ebbe paura di scegliere...
Moreno Blasi
Bellissima storia! Complimenti
RispondiEliminaMolto bello e ben scritto, complimenti vivissimi
RispondiEliminaMolto bello, il biglietto per Roma non lo avrei messo nel racconto. Non puoi aver ascoltato il discorso sulle poltrone ed avere ancora dubbi. Complimenti Moreno scritto molto bene. Un libro così lo comprerei subito
RispondiEliminaSono Decio
RispondiEliminaCiao Moreno. Bellissimo racconto, oltre che significativo momento di riflessione. L’ho letto e mi sono immaginato seduto a poca distanza dal palco, ma ho provato anche una certa familiarità dell’ambiente del teatro, non solo dal punto di vista del pubblico. Bravo👌
RispondiEliminaCarmine
RispondiElimina