mercoledì 22 giugno 2016

La Beat Generation: "Nascita del movimento" parte 1^

La generazione cresciuta negli Stati Uniti nel secondo dopoguerra era maturata troppo in fretta.
Cresciuta in un’esistenza sempre più condivisa con quella degli adulti, non credeva più alle giustificazioni e agli accomodamenti che i genitori usavano per spiegare un mondo sempre meno legato alle leggi tradizionali, ricercando da sé, attraverso esperienze personali, una realtà autonoma e svincolata da convenzioni morali che, ai loro occhi, mascheravano solo pregiudizi e luoghi comuni.
La guerra era da poco finita e in America iniziava un periodo di massima prosperità che andava a scontrarsi con la mentalità ancora troppo chiusa dell’epoca: una mentalità fatta di cattolicesimo bigotto, moralismo senza senso e dogmi a non finire, che i giovani non riuscivano più ad accettare. La pace che avevano ereditato era solo una pace fredda. Questa generazione di giovani disperati e inquieti, che credevano nella vita ma respingevano i sistemi morali e sociali precostituiti, voleva scoprirne di nuovi, sperando (o illudendosi) di trovarli più efficienti.
Il critico del New York Times John Clellon Holmes etichettò questa generazione Beat Generation, usando l'espressione utilizzata dallo scrittore Jack Kerouac durante un'intervista nel 1948, il quale, parlando delle generazioni passate e non volendo attribuire nessuna definizione alla propria, disse: "Ah, questa qui non è che una Beat generation".
In realtà il termine veniva già utilizzato fin dagli anni '40 riferendosi a gruppi di artisti che operavano nel sottobosco culturale discutendo di poesia, prosa e coscienza.
I beatnik, come essi amavano definirsi, non erano certo professori o scrittori “professionisti” aggrappati a un impiego in Case Editrici o giornali,  ma ragazzi irrequieti che basavano la loro esistenza su una morale naturale non regolata da leggi e su un'assoluta onestà e franchezza; erano pacifisti, non avevano alcun interesse per il denaro, facevano uso di droghe e amavano la musica jazz. Si ispiravano agli artisti bohemienne, come Blake, Rimbaud o Baudelaire, per il loro modo di sfuggire al reale; ma anche a W.C.Williams e Ezra Pound per la loro concretezza e l'idea secondo cui la poesia si deve fondare sulla musica. Da Walt Whitman avevano preso il free verse, il verso libero (lungo e irregolare), ma anche il ritmo, la ricerca continua di sé, il misticismo, la vivezza della lingua con i suoi gergalismi e i termini onomatopeici. Leggevano E.A. Poe, W. Faulkner ed E. Hemingway per la loro crudezza e la loro immediatezza; D.H. Lawrence per la sua franchezza riguardo al sesso e Aldous Huxley  quale autore esperto di droghe. Sarebbe facile scambiare il loro modo di vita per una rivolta antiborghese o per un volgare edonismo, giudicarli come semplici epigoni della “Lost Generation” (il gruppo di letterati americani che nel primo dopoguerra si rivoltò contro il costume vittoriano e il conformismo puritano, dando voce a una protesta, che ispirò i più bei classici della narrativa moderna), ma in realtà, come afferma Holmes:“The wild boys of today are not lost” ( “I ragazzi selvaggi di oggi non sono perduti”). Essi non erano ossessionati, come i loro predecessori cresciuti sulle rovine delle generazioni del primo dopoguerra, dalla ripetitività di ideali ormai andati in frantumi o dalle lamentele circa una moralità infangata, perché tali aspetti li davano per scontati. Bevevano per sentirsi grandi e non per dimostrare qualcosa; le loro “escursioni” nella droga e nella promiscuità scaturivano da curiosità e non da delusione e disillusione. Inoltre, mentre nella Lost Generation si verificò una perdita della fede, la Beat Generation fu caratterizzata sempre più da un bisogno eccessivo di credere in qualcosa. Piuttosto cercavano una realtà trascendente in cui poter credere, tale da soppiantare quella terrena in cui non potevano più credere. Non credevano nella violenza e in una rivolta attiva e aggressiva, ma in una specie di rinascita della personalità umana. Consideravano il mondo un caos morale, una causa inesorabile di distruzione dei valori intellettuali e si raccoglievano in gruppi di iniziati per isolarsi da chi “non capiva” e frugare la realtà in cerca di una fede, di qualcosa in cui credere, di un bandolo nell’intricata, inestricabile matassa che è la vita moderna. La strada, il sacco a pelo, lo zaino in spalla e sempre un taccuino su cui scrivere, erano i veri simboli di questi ragazzi, simboli di un modello di vita nato dall'esigenza del rifiuto del reale perché troppo limitato, troppo sofferente e insopportabilmente insoddisfacente.
Mescalina, funghi sacri, acido lisergico (LSD), hashish e marijuana erano esperienze a cui i Beat non si tiravano indietro per espandere la loro esperienza del reale.
“Beat non vuol dire stanco, ma beato: essere in uno stato di beatitudine, come San Francesco, provando ad essere totalmente sincero con tutti, praticando la sopportazione, la gentilezza, coltivando la gioia del cuore. Come può essere fatto tutto ciò nel nostro pazzo moderno mondo di molteplicità e milioni? Praticando un po’ di solitudine, uscendo da sé stessi una volta ogni tanto per far tesoro di qualcosa che è più prezioso dell’oro: le vibrazioni della sincerità.” 

(cit. Jack Kerouac).
continua.....


Moreno BLASI




sabato 11 giugno 2016

Appunti: l'Espressionismo astratto


L'Espressionismo astratto fu il primo fenomeno artistico tipicamente americano a influenzare il resto del mondo e a contribuire allo spostamento della capitale artistica da Parigi a New York, ma più in generale dall'Europa agli Stati Uniti d'America.
Il movimento prende il nome dalla combinazione auto espressiva e dell'intensità emotiva degli espressionisti tedeschi, con l'estetica anti-figurativa delle scuole di astrazione europee come il Futurismo, il Bauhaus e il Cubismo sintetico.
In aggiunta, il movimento possiede un'immagine di ribellione, anarchia, molto idiosincratica e, secondo il pensiero di alcuni, piuttosto nichilista.
Come prima originale scuola di pittura in America, l'espressionismo astratto dimostrò la vitalità e la creatività del paese negli anni del dopoguerra, tanto quanto il suo bisogno (o abilità) di sviluppare un senso estetico che non fosse ristretto negli standard europei di bellezza.
Il movimento attrasse l'attenzione, nei primi anni cinquanta, della CIA che vi 
vide un mezzo ottimale per la promozione dell'ideale statunitense di libertà di pensiero e di libero mercato: uno strumento perfetto per competere sia con gli stili del socialismo realista prevalente nelle nazioni comuniste, sia con il mercato dell'arte europea, allora dominante.
Dal 1960, la corrente perse d'impatto e non fu più a lungo tanto influente.
Alcuni movimenti, come la pop art e il minimalismo, furono una controrisposta e una ribellione verso quello che l'espressionismo astratto aveva generato.
Ad ogni modo, molti pittori, come Fuller Potter, che avevano creato opere espressioniste astratte, continuarono a lavorare su questa linea per molti anni ancora, a volte estendendo ed espandendo le implicazioni estetiche e filosofiche di questa ricerca artistica.
Le opere di espressionismo astratto sono facilmente riconoscibili: in gran parte erano dipinte su grandi tele con forte energia e rapidità, utilizzando grossi pennelli o direttamente gettando il colore puro sulla tela. 
Esistono diverse interpretazioni di questa corrente, in quanto molti artisti considerano l'espressionismo in forma astratta come una rappresentazione violenta, mentre altri si approcciano a questa tecnica in modo più sereno, ovvero interpretando con la pittura espressionista le immagini astratte.
Da sottolineare il fatto che non tutte le opere di questa corrente sono astratte o espressioniste, ma si rispecchiano nella corrente per la spontaneità del rapporto dell'artista con l'opera e il ruolo privilegiato dell'inconscio nel processo creativo. 
Nella sua genericità, il termine "Espressionismo Astratto" ha il pregio di evidenziare due attributi fondamentali di tutta la corrente:
     • il ruolo centrale assegnato all'individualità dell'artista;
     • lo sviluppo di un linguaggio pittorico di tipo astratto.
L'arte consiste nell'atto stesso del dipingere.
Al centro del lavoro è l'individualità dell'artista, che si pone in una condizione di rischio, mette in gioco la propria esistenza in senso psicologico e spirituale.
Luogo di esistenza dell'artista e dell'arte è il quadro, spazio libero da convenzioni estetiche, in cui l'artista convoglia le proprie emozioni e la propria energia vitale.
Particolarmente esplicativa in tal senso è la denominazione "Action painting", perché pone l’accento riguardo all'urgenza dell'azione per l'artista.
"Azione" non in senso motorio, gestuale, come è stato spesso equivocato, ma in senso psicologico ed esistenziale.
L'artista esiste non perché raffigura qualcosa, ma perché sceglie di agire.
"Azione" intesa come assunzione del rischio di dipingere il quadro senza un progetto, lasciando che il quadro nasca e si riveli al momento.
"Azione", quindi, come auto-conferma dell'esistenza dell'artista.


Moreno BLASI

martedì 7 giugno 2016

L’Erratum Musical di Marcel Duchamp rivive nella video-installazione di due artisti anconetani





Negli anni turbolenti che vanno dal 1912 al 1915, Marcel Duchamp, uno dei più importanti artisti del secolo scorso, compose due opere musicali e il suggerimento per un happening dal contenuto altamente concettuale. 
Anche se l'opera musicale di Marcel Duchamp è tutta riassunta in queste tre composizioni, sarebbe un errore attribuirgli un ruolo secondario, poiché con questi pochi e giocosi lavori, egli nell'ambito della musica del Novecento compie un balzo paragonabile almeno a quello ampiamente riconosciutogli nel contesto delle arti visive. Una di queste composizioni, l’Erratum musical appartiene ad una serie di note e progetti che Duchamp iniziò a raccogliere nel 1912 e non venne mai pubblicata né interpretata finché fu in vita, ispirandogli in compenso la realizzazione della Sposa messa a nudo dai suoi scapoli (traduzione di La Mariée mise à nu par ses célibataires, même) chiamato anche Grande Vetro. 
Due artisti anconetani, il compositore Paolo Tarsi e l’art-performer Maurizio Cesarini, hanno rielaborato l’Erratum Musical in una video-installazione presentata al Musma di Matera (il più importante museo italiano interamente dedicato alla scultura, ndr) nell’ambito delle Invasioni digitali, un’iniziativa nata affinché il senso museale possa essere fruito attraverso nuove tecnologie. 
Abbiamo incontrato i due artisti alla ricerca di approfondimenti riguardanti il progetto.
“La rielaborazione dell’opera parte dall’idea di casualità, così com’è stata concepita” introduce Maurizio Cesarini “affidando il riferimento al capolavoro dello stesso Duchampla Sposa sospesa, che appunto si trova in una situazione di sospensione e di estremo pericolo.”
“Il video” continua “si basa su l’immagine di una finestra, fatta rifare dall’artista a New York sulla forma e falsariga delle finestre francesi, intitolata French window (titolo che gioca sull’omofonia del termine Fresh widow -fresca vedova- locuzione con cui nell’argot, la parlata più comune francese, è definita la ghigliottina, ndr).”
“L’opera venne concepita da Duchamp come una finestra reale con i vetri oscurati da pezzi di cuoio, puliti tutti i giorni con del lucido per scarpe: una finestra sul nulla che impedisce allo sguardo di andare oltre. Un concetto dove Duchamp racchiude la rappresentazione della morte e l’impossibilità di vedere aldilà dell’opera. Nel video invece dalla finestra appare l’immagine dello stesso Duchamp, in un’intervista fatta pochi mesi prima di morire, prima del suo silenzio totale”.
“L’artista diventa parte indissolubile della sua stessa opera. Non è da considerarsi una semplice annotazione visiva, ma l’espressione compositiva della natura stessa del brano, attenendosi alla più totale prassi elaborativa di Duchamp.” 
D’altronde l’Erratum Musical ha una storia del tutto particolare: Marcel Duchamp, figlio di un notaio, proveniva da una famiglia dell’alta borghesia, la cui abitudine era di incontrarsi ogni anno per una sorta di concerto. Duchamp pensò di scrivere un pezzo a tre voci: per lui e le sue sorelle Yvonne e Magdalene, evitando ogni forma di scrittura tradizionale e giocando tutto sul caso. L’opera era composta ogni volta in maniera imprevedibile, con un trenino elettrico che correndo sul singolo binario, lasciava cadere dai vagoncini delle palline numerate. Alle palline, prese nell’ordine in cui cadevano, era corrisposta una nota.
“Il brano utilizzato per il video” interviene il compositore Paolo Tarsi “è una rivisitazione della partitura così come esposta da Duchamp, ovviamente reinterpretata poiché il testo non è sempre chiaro e quindi non riconducibile, in alcuni momenti, a qualsiasi altro contrassegno musicale proprio per questa sua difficoltà ad essere rapportato a note specifiche. Ho rivisto il lavoro di Duchamp in collaborazione con i musicisti del duo Fauve! Gegen A Rhino, facendone una rilettura in chiave elettronica (tra l’altro presente nel disco “Dream in a landscape”, uscito per Trovarobato Parade, che Paolo Tarsi ha pubblicato a gennaio e dedicato alla figura del musicista John Cage, grande compositore e amico di Duchamp, ndr).
“Il brano è stato prodotto con un campionatore, creando dei pattern di organo rielaborati e processati insieme ad un arpeggiatore. I suoni del campionatore riconducono alle voci femminili di Magdeleine e Yvonne (le sorelle dell’artista, ndr), mentre l’arpeggiatore rappresenta la voce maschile di Marcel
Durante l’esecuzione si ascolta ogni trenta secondi il rumore del lancio di un dado, tutto per nove volte (tre movimenti ciascuno: Yvonne, Magdeleine e Marcel) dando ai frammenti la durata complessiva di 4 minuti e 30 secondi”.
La rielaborazione si traduce in un lavoro creativo completamente asciutto. Nulla che possa associarsi a qualsiasi altra forma artistica convenzionale, slegata da ogni condizionamento o significato deduttivo; un’opera la cui interpretazione rappresenta la più libera espressione artistica, e come tale, se non è possibile garantirla, almeno considerarla.  

Paolo Tarsi è autore di numerose installazioni e composizioni presentate in musei e gallerie d’arte, dal MAXXI di Roma allo Spectrum di New York. Specializzatosi nello studio della composizione con il Premio Oscar Luis Bacalov, ha lavorato con musicisti dell’attuale scena elettronica, jazz e rock, tra cui il chitarrista Paolo Tofani nel progetto AREA Open Project. La sua ultima uscita discografica dal titolo “Furniture Music for New Primitives” (Cramps) è stata giudicata da numerose riviste di settore tra i 5 migliori dischi italiani del 2015.

Maurizio Cesarini si pone sin dagli anni ’70 nell’ambito di una ricerca che privilegia l’uso del corpo in senso identitario. Nelle successive esperienze dilata ancor più questo assunto ampliando i mezzi espressivi e adottando pratiche procedurali come la fotografia, il video e la performance. Ha esposto in varie mostre nazionali ed internazionali. Ricordiamo tra le altre: Città del Messico, Izmie (Turchia), Philadelphia (USA), Shanghai (Cina) e Sachsenberg (Germania).


Moreno BLASI

sabato 4 giugno 2016

L'addio ad un campione


Vorrei unirmi al coro di commemorazione per la scomparsa di Muhammad Alì ricordandolo come colui che, aldilà del valore sportivo ed umano, declamò la poesia più breve mai concepita. Avvenne nel '75 durante una conferenza stampa presso l'Università di Harvard, quando un gruppo di studenti domandò quale fosse per lui il senso della vita. 
Rispose:"Me, we", racchiudendo in quelle semplici parole l'amore che provava per l'umanità intera. 
Dopotutto è solo un arrivederci...ciao "Campione"...



Moreno BLASI 










martedì 31 maggio 2016

William Shakespeare, emozioni senza tempo. 400 anni dalla morte del grande Bardo inglese



Quest’anno si celebra il 400° anniversario della dipartita di uno dei più celebrati autori nella storia del teatro e della letteratura mondiale: William Shakespeare. La sua notevole produzione artistica, concentrata quasi tutta tra il 1588 e il 1613, che annovera ben 38 testi teatrali, 154 sonetti oltre ad un numero imprecisato di altri scritti e poemi, ha rivelato una straordinaria capacità nel rappresentare le mode e i gusti popolari del tempo mediante la costruzione di personaggi complessi, dalla personalità elaborata. Giocando con le metafore ed altre figure retoriche, Shakespeare ha utilizzato l’inglese in modo creativo grazie a una prosa romantica, con la quale è riuscito a compensare trame talvolta non particolarmente complesse o avvincenti piegandole, se necessario, alle proprie esigenze poetiche e narrative. L'originalità del drammaturgo, tuttavia, va ricercata maggiormente nella grande capacità di trasformazione delle diverse forme teatrali del suo tempo in opere di grande respiro ed equilibrio, dove il tragico, il comico, il gusto per il dialogo serrato e l'arguzia, sono spesso presenti in un'unica miscela di grande efficacia.
William Shakespeare nasce il 23 aprile del 1564 a Stratford­ upon­Avon nell’Inghilterra centrale, e ivi morirà (per un beffardo gioco del destino) lo stesso giorno nel 1616. La sua vita si svolge sullo sfondo dell’Inghilterra elisabettiana, un’epoca turbolenta caratterizzata da conflitti religiosi ma anche da una straordinaria fioritura artistica e culturale. Nel 1592 giunge a Londra, trovando una città sordida e meravigliosa, sporca e graveolente, in compenso il perfetto palcoscenico per la sua intera carriera di attore e di drammaturgo. Paradossalmente, conosciamo molte più cose delle sue opere di quanto ne sappiamo della sua vita, poiché su di lui esistono solo pochissimi documenti, il che non fa che aumentare la nostra curiosità. Forse dietro al Dante d’Inghilterra si cela quella che nel 1903 lo scrittore Henry James definisce “la più grande e più riuscita frode che sia mai stata realizzata nei confronti di un mondo paziente”?
In effetti, fin dalla metà dell’Ottocento, al nome di Shakespeare molti studiosi hanno associato fior di papabili autori nascosti: fra i più accreditati il filosofo Francis Bacon, lo scrittore Christopher Marlowe, il colto Edward de Vere conte di Oxford, la contessa Mary Sidney di Pembroke (sorella del poeta Philip) e qualcuno è arrivato a scomodare persino il nome della regina Elisabetta I; tutti inglesi, anche se da qualche tempo il candidato più gettonato è John Florio, letterato di origini italiane, docente ad Oxford, con incarichi di prestigio alla corte della regina d’Inghilterra. Ipotesi in fin dei conti irrilevanti: l’essenziale è che “Amleto” e “Sogno di una notte di mezza estate” siano state scritte e non importa da chi. L’artista in sé non ha alcuna importanza, a questo punto conta soltanto la sua creazione. Il successo, ancora attuale, dei suoi lavori è sicuramente legato alla capacità di far rivivere i sentimenti più profondi dell’animo umano: l’amore passionale di Otello, quello più romantico di Romeo e Giulietta, la lotta al potere di Macbeth, e il dubbio che spesso domina l’esistenza umana: in questo il monologo di Amleto è esemplare. Si tratta di opere dove scompare quasi totalmente il fato, la forza soprannaturale incontrollabile che condiziona le fortune degli uomini, sostituito dalle libere scelte, dalle attitudini e dal carattere degli individui messi in scena. Tutti elementi utilizzati costruendo un nuovo linguaggio per il pubblico.
Riprendendo le parole di John Keats, “la vita di un uomo, una vita di qualche rilievo, è una continua allegoria. Shakespeare visse una vita che è un’allegoria: le sue opere ne sono il commento”.
Allora Shakespeare è realmente esistito, così come esistono tuttora l’amore, la generosità e la devozione che animano le sue opere.

Moreno BLASI

Edward Hopper e la solitudine urbana. In mostra a Bologna


Hopper non è soltanto un grande pittore, ma un inestimabile narratore americano. I suoi quadri sono “pittura pura” nel senso più rigoroso del termine, che nulla concede al bozzettistico, all’illustrativo, all’aneddotico. Il realismo dei suoi dipinti nasce dalla mescolanza e dall'accostamento di vari schizzi realizzati in momenti differenti dall'artista, che lo allontanano, così, dal classico ritratto "dal vero", permettendogli una più libera e personale interpretazione della realtà. Tuttavia ciascuno di essi è così denso di sentimento, così carico di un’atmosfera inconfondibile e costante  da imporsi come scena indimenticabile di uno stesso romanzo, di uno stesso film. Hopper utilizza composizioni e tagli fotografici simili a quelli degli impressionisti che aveva visto a Parigi ma, di fatto, il suo stile è personalissimo e imitato a sua volta da cineasti e fotografi. La sua vocazione artistica si rivolge sempre più verso un forte realismo, che risulta la sintesi della visione figurativa combinata con il sentimento struggente e poetico che percepisce nei suoi soggetti. 
Protagonista delle sue tele è la solitudine che trapela dai soggetti quotidiani: nei suoi quadri che rappresentano esterni cittadini, inserisce un unico personaggio, solo e distaccato, fisicamente e psicologicamente, come se vivesse in una dimensione isolata. 
La scena è spesso deserta, immersa nel silenzio, raramente vi è più di una figura umana e, quando ve n’è più di una, sembra emergere una drammatica estraneità e incomunicabilità tra i soggetti. 
L'artista ama ritrarre paesaggi vuoti o semivuoti delle periferie americane, interni domestici o di locali, ciascuno dei quali sembra sospeso in un'atmosfera fuori dal tempo, esattamente come sembrano inermi e congelati i pochi personaggi che vi compaiono. La direzione dei loro sguardi o i loro atteggiamenti spesso "esce” dal confine del quadro, nel senso che si rivolge verso qualcosa che lo spettatore non vede. 
Nelle numerose tele che raffigurano interni domestici, con inquadrature quasi cinematografiche, si diverte anzi a spiare gli ignari protagonisti mettendo in scena momenti di vita ordinaria.
In questo contesto trovano particolare spazio nelle sue opere le figure femminili. Cariche di significato simbolico, assorte nei loro pensieri, con lo sguardo perduto nel vuoto o nella lettura, si offrono spesso seminude ai raggi del sole trasmettendo solitudine, attesa, inaccessibilità: una dimensione psicoanalitica che ha permesso di interpretare meglio le emozioni dell'artista.
Non ha nulla del pittore inquietante e tantomeno del Maudit,il suo fascino sta invece proprio nelle massificanti inquietudini e nelle maledizioni ecologiche, già in preparazione verso la fine degli anni ’20, che l’artista deliberatamente respinge fuori dal quadro, lasciandoci dentro, per se stesso e per noi, qualcosa che sarà magari una solitudine, una malinconia o addirittura un vuoto totale, ma che è un vuoto non ancora inquinato, una sfera di libertà ancora possibile, uno spazio privato da difendere con le unghie e coi denti. 
Comunemente noto per aver saputo esprimere un senso di solitudine e d’isolamento, è stato anche uno degli artisti più innovativi nell'esplorare la condizione urbana. 
L'America che ritrae non ha nulla di eroico né di moderno: predilige architetture nel paesaggio, strade di città, interni di case, di uffici, di teatri e di locali, dove la città sembra disabitata; cinema e caffè appaiono quasi vuoti, le facciate delle case hanno le finestre chiuse, sulle rotaie non corrono treni. 
L'elemento del silenzio sembra pervadere tutti i suoi lavori più importanti.
La composizione dei quadri è talora geometrizzante, sofisticato il gioco delle luci fredde, taglienti e volutamente artificiali che rendono sintetici i dettagli.
Ed è proprio l’uso magnifico che fa della luce a permettergli di mantenere la giusta tensione nelle sue opere: le immagini dai colori brillanti non trasmettono vivacità, come negli spazi che sono reali, ma in essi c'è qualcosa di metafisico che comunica allo spettatore un forte senso d’inquietudine. 
Analogamente, Hopper coglie un momento particolare, quasi il preciso secondo in cui il tempo si ferma, dando all'attimo un significato eterno, universale.

Di lui è stato detto che sapeva "dipingere il silenzio". Diceva: "non dipingo quello che vedo, ma quello che provo".

Moreno BLASI