martedì 31 maggio 2016

William Shakespeare, emozioni senza tempo. 400 anni dalla morte del grande Bardo inglese



Quest’anno si celebra il 400° anniversario della dipartita di uno dei più celebrati autori nella storia del teatro e della letteratura mondiale: William Shakespeare. La sua notevole produzione artistica, concentrata quasi tutta tra il 1588 e il 1613, che annovera ben 38 testi teatrali, 154 sonetti oltre ad un numero imprecisato di altri scritti e poemi, ha rivelato una straordinaria capacità nel rappresentare le mode e i gusti popolari del tempo mediante la costruzione di personaggi complessi, dalla personalità elaborata. Giocando con le metafore ed altre figure retoriche, Shakespeare ha utilizzato l’inglese in modo creativo grazie a una prosa romantica, con la quale è riuscito a compensare trame talvolta non particolarmente complesse o avvincenti piegandole, se necessario, alle proprie esigenze poetiche e narrative. L'originalità del drammaturgo, tuttavia, va ricercata maggiormente nella grande capacità di trasformazione delle diverse forme teatrali del suo tempo in opere di grande respiro ed equilibrio, dove il tragico, il comico, il gusto per il dialogo serrato e l'arguzia, sono spesso presenti in un'unica miscela di grande efficacia.
William Shakespeare nasce il 23 aprile del 1564 a Stratford­ upon­Avon nell’Inghilterra centrale, e ivi morirà (per un beffardo gioco del destino) lo stesso giorno nel 1616. La sua vita si svolge sullo sfondo dell’Inghilterra elisabettiana, un’epoca turbolenta caratterizzata da conflitti religiosi ma anche da una straordinaria fioritura artistica e culturale. Nel 1592 giunge a Londra, trovando una città sordida e meravigliosa, sporca e graveolente, in compenso il perfetto palcoscenico per la sua intera carriera di attore e di drammaturgo. Paradossalmente, conosciamo molte più cose delle sue opere di quanto ne sappiamo della sua vita, poiché su di lui esistono solo pochissimi documenti, il che non fa che aumentare la nostra curiosità. Forse dietro al Dante d’Inghilterra si cela quella che nel 1903 lo scrittore Henry James definisce “la più grande e più riuscita frode che sia mai stata realizzata nei confronti di un mondo paziente”?
In effetti, fin dalla metà dell’Ottocento, al nome di Shakespeare molti studiosi hanno associato fior di papabili autori nascosti: fra i più accreditati il filosofo Francis Bacon, lo scrittore Christopher Marlowe, il colto Edward de Vere conte di Oxford, la contessa Mary Sidney di Pembroke (sorella del poeta Philip) e qualcuno è arrivato a scomodare persino il nome della regina Elisabetta I; tutti inglesi, anche se da qualche tempo il candidato più gettonato è John Florio, letterato di origini italiane, docente ad Oxford, con incarichi di prestigio alla corte della regina d’Inghilterra. Ipotesi in fin dei conti irrilevanti: l’essenziale è che “Amleto” e “Sogno di una notte di mezza estate” siano state scritte e non importa da chi. L’artista in sé non ha alcuna importanza, a questo punto conta soltanto la sua creazione. Il successo, ancora attuale, dei suoi lavori è sicuramente legato alla capacità di far rivivere i sentimenti più profondi dell’animo umano: l’amore passionale di Otello, quello più romantico di Romeo e Giulietta, la lotta al potere di Macbeth, e il dubbio che spesso domina l’esistenza umana: in questo il monologo di Amleto è esemplare. Si tratta di opere dove scompare quasi totalmente il fato, la forza soprannaturale incontrollabile che condiziona le fortune degli uomini, sostituito dalle libere scelte, dalle attitudini e dal carattere degli individui messi in scena. Tutti elementi utilizzati costruendo un nuovo linguaggio per il pubblico.
Riprendendo le parole di John Keats, “la vita di un uomo, una vita di qualche rilievo, è una continua allegoria. Shakespeare visse una vita che è un’allegoria: le sue opere ne sono il commento”.
Allora Shakespeare è realmente esistito, così come esistono tuttora l’amore, la generosità e la devozione che animano le sue opere.

Moreno BLASI

Edward Hopper e la solitudine urbana. In mostra a Bologna


Hopper non è soltanto un grande pittore, ma un inestimabile narratore americano. I suoi quadri sono “pittura pura” nel senso più rigoroso del termine, che nulla concede al bozzettistico, all’illustrativo, all’aneddotico. Il realismo dei suoi dipinti nasce dalla mescolanza e dall'accostamento di vari schizzi realizzati in momenti differenti dall'artista, che lo allontanano, così, dal classico ritratto "dal vero", permettendogli una più libera e personale interpretazione della realtà. Tuttavia ciascuno di essi è così denso di sentimento, così carico di un’atmosfera inconfondibile e costante  da imporsi come scena indimenticabile di uno stesso romanzo, di uno stesso film. Hopper utilizza composizioni e tagli fotografici simili a quelli degli impressionisti che aveva visto a Parigi ma, di fatto, il suo stile è personalissimo e imitato a sua volta da cineasti e fotografi. La sua vocazione artistica si rivolge sempre più verso un forte realismo, che risulta la sintesi della visione figurativa combinata con il sentimento struggente e poetico che percepisce nei suoi soggetti. 
Protagonista delle sue tele è la solitudine che trapela dai soggetti quotidiani: nei suoi quadri che rappresentano esterni cittadini, inserisce un unico personaggio, solo e distaccato, fisicamente e psicologicamente, come se vivesse in una dimensione isolata. 
La scena è spesso deserta, immersa nel silenzio, raramente vi è più di una figura umana e, quando ve n’è più di una, sembra emergere una drammatica estraneità e incomunicabilità tra i soggetti. 
L'artista ama ritrarre paesaggi vuoti o semivuoti delle periferie americane, interni domestici o di locali, ciascuno dei quali sembra sospeso in un'atmosfera fuori dal tempo, esattamente come sembrano inermi e congelati i pochi personaggi che vi compaiono. La direzione dei loro sguardi o i loro atteggiamenti spesso "esce” dal confine del quadro, nel senso che si rivolge verso qualcosa che lo spettatore non vede. 
Nelle numerose tele che raffigurano interni domestici, con inquadrature quasi cinematografiche, si diverte anzi a spiare gli ignari protagonisti mettendo in scena momenti di vita ordinaria.
In questo contesto trovano particolare spazio nelle sue opere le figure femminili. Cariche di significato simbolico, assorte nei loro pensieri, con lo sguardo perduto nel vuoto o nella lettura, si offrono spesso seminude ai raggi del sole trasmettendo solitudine, attesa, inaccessibilità: una dimensione psicoanalitica che ha permesso di interpretare meglio le emozioni dell'artista.
Non ha nulla del pittore inquietante e tantomeno del Maudit,il suo fascino sta invece proprio nelle massificanti inquietudini e nelle maledizioni ecologiche, già in preparazione verso la fine degli anni ’20, che l’artista deliberatamente respinge fuori dal quadro, lasciandoci dentro, per se stesso e per noi, qualcosa che sarà magari una solitudine, una malinconia o addirittura un vuoto totale, ma che è un vuoto non ancora inquinato, una sfera di libertà ancora possibile, uno spazio privato da difendere con le unghie e coi denti. 
Comunemente noto per aver saputo esprimere un senso di solitudine e d’isolamento, è stato anche uno degli artisti più innovativi nell'esplorare la condizione urbana. 
L'America che ritrae non ha nulla di eroico né di moderno: predilige architetture nel paesaggio, strade di città, interni di case, di uffici, di teatri e di locali, dove la città sembra disabitata; cinema e caffè appaiono quasi vuoti, le facciate delle case hanno le finestre chiuse, sulle rotaie non corrono treni. 
L'elemento del silenzio sembra pervadere tutti i suoi lavori più importanti.
La composizione dei quadri è talora geometrizzante, sofisticato il gioco delle luci fredde, taglienti e volutamente artificiali che rendono sintetici i dettagli.
Ed è proprio l’uso magnifico che fa della luce a permettergli di mantenere la giusta tensione nelle sue opere: le immagini dai colori brillanti non trasmettono vivacità, come negli spazi che sono reali, ma in essi c'è qualcosa di metafisico che comunica allo spettatore un forte senso d’inquietudine. 
Analogamente, Hopper coglie un momento particolare, quasi il preciso secondo in cui il tempo si ferma, dando all'attimo un significato eterno, universale.

Di lui è stato detto che sapeva "dipingere il silenzio". Diceva: "non dipingo quello che vedo, ma quello che provo".

Moreno BLASI