domenica 11 maggio 2025



La cadenza dell'attesa



 

Clic. Lo Zippo si apre. 

  Il metallo freddo scivola tra le dita, familiare come un vecchio amico. La fiamma non serve, non oggi. È il suono che cerco, quel metallico Clac che scandisce i secondi, i minuti, le ore davanti a una pagina bianca. 

Clac. Lo Zippo si chiude. 

  Quante storie sono rimaste intrappolate in questo rituale? Quanti personaggi sono nati e morti nel tempo di un'apertura e di una chiusura? Ascolto il silenzio tra un Clic e l'altro. È lì che si nasconde l'ispirazione, dicono. Nel silenzio. Nell'attesa. 

Clic. Lo Zippo si apre. 

  La pagina rimane bianca, come la neve che non ha ancora conosciuto impronte. Guardo le mie dita, leggermente annerite dall'uso dell'accendino. Chissà quante volte l'ho aperto e chiuso. Centinaia? Migliaia? Ho perso il conto, come ho perso il conto delle parole non scritte. 

Clac. Lo Zippo si chiude. 

  Eppure c'è qualcosa di consolante in questo gesto ripetitivo. Una certezza in un mondo di dubbi. Lo Zippo non mente, non promette storie che non può mantenere. Si apre, si chiude. Semplice. Affidabile. A differenza delle parole che mi sfuggono come sabbia tra le dita. 

Clic. Lo Zippo si apre. 

  Mi chiedo se anche altri scrittori abbiano avuto i loro rituali. Se Hemingway contasse i sorsi di whisky, se Kafka accarezzasse il legno della sua scrivania in attesa che i suoi incubi prendessero forma sulla carta, o se Virginia Woolf osservasse le onde del fiume prima di tuffarsi nelle correnti della coscienza. Penso che siamo tutti uguali, in fondo. Tutti soli davanti a una pagina bianca, tutti in cerca di un'eco nel silenzio. 

Clac. Lo Zippo si chiude. 

  Un pensiero si forma; non una storia, ma lo potrebbe diventare. È solo un'ombra, un contorno sfocato. Lo osservo con cautela, temendo che possa dissolversi se guardo troppo intensamente. Come quando fissi una stella e scompare… visibile solo con la coda dell'occhio.

Clic. Lo Zippo si apre. 

  La solitudine ha un peso, ma anche un suono. È il suono di un accendino che si apre e si chiude, è il respiro che si trasforma in sospiro, è il rumore delle dita che finalmente si muovono sulla tastiera. Perché la solitudine non è assenza, è presenza. La presenza di sé stessi, nuda e senza filtri. 

Clac. Lo Zippo si chiude. 

  Forse è questo che cerco davvero; la compagnia…la compagnia di me stesso, che mi aiuti a esplorare ciò che già vive in me. L'accendino è solo un pretesto, una piccola ancora nella realtà che mi circonda. Ogni Clic è un battito che scandisce il viaggio verso ciò che vive nell’immaginazione. 

Clic. Lo Zippo si apre. 

  E in questo viaggio incontro frammenti di storie, personaggi che abitano anfratti dimenticati in attesa di un improbabile risveglio, pronti a riaffiorare quando il silenzio sarà abbastanza profondo da lasciarli parlare. Un universo popolato di voci, di storie, di possibilità. Sono reali? Forse nessuno, forse tutti. Un caleidoscopio di narrazioni dove ogni sfaccettatura rivela un frammento del completo. Una realtà… prismatica, che si trasforma in ogni istante. Ma… qual è la più autentica? 

Lo Zippo resta chiuso a metà, in attesa anche lui di una risposta.

  Forse non esiste una risposta definitiva, è un mosaico incompiuto che cambia forma senza sosta. Scrivere non è altro che un tentativo di dare un ordine temporaneo a questo caos magnifico, un atto di coraggio e di umiltà, uno spazio sacro dove il tempo si dilata e il caos, per un istante, sembra quasi comprensibile. Un dialogo infinito tra ciò che conosciamo e ciò che ci sfugge. 

Clac. Lo Zippo si chiude con un suono che ora sembra diverso, più pieno. 

  Finalmente le parole…non proprio quelle che cercavo, ma quelle che mi hanno trovato mentre esploravo quel labirinto fatto di confusione. Una storia dalla contraddittoria complessità. 

Clic. Lo Zippo si apre. 

  Le dita cominciano a correre sui tasti e sulla pagina inizia ad apparire qualcosa. E mentre scrivo, comprendo che l’importante non è cercare mondi perfetti, quanto scoprire quelli che già esistono dentro di noi. Una rivelazione ma anche una liberazione, dove ogni parola diventa un ponte tra il visibile e l'invisibile, tra ciò che conosciamo e ciò che intuiamo. La scrittura non è più comunicazione; è trasformazione. 

Lo Zippo resta aperto. 

  Ogni frase completata lascia un segno non solo sulla pagina, ma anche nell'anima. Ed è in questo danzare sul confine tra realtà e immaginazione che nasce la perfetta comunione tra il pensiero e la parola…rara come un'eclissi. 

Lo Zippo giace dimenticato accanto alla tastiera. 

  Non è più solo inchiostro nero su sfondo bianco; ogni lettera è un passo che non ha destinazione, tappe momentanee dove riposare prima di ripartire. Le parole trovano la loro strada, scorrono autonome. La pagina bianca non è più un vuoto da riempire, ma uno spazio da abitare, un territorio da esplorare passo dopo passo. 

Lo Zippo è immobile, finalmente a riposo. 

  Scopro allora che il suo suono è stato solo un pretesto, un modo per riempire il silenzio rimanendo sospeso tra realtà e possibilità. 

  Ho la mia storia che adesso respira sulla carta. E tanto basta...anzi, in questo istante è tutto ciò di cui ho bisogno. 

Clac… 

                                                                             

                                                                                Moreno BLASI  

giovedì 15 giugno 2023



Il Negozio dei sogni



1.

Il negozio era delizioso, lo si notava anche dall’esterno.

La sua insegna diceva: “Sogni”.
Non era facile imbattersi, poiché per arrivarci era necessario che almeno la prima volta qualcuno ne indicasse la direzione, tanto era difficile trovarlo.
Si trovava nella zona esterna della città, quella che generalmente viene trascurata dai residenti che preferiscono invece bazzicare il centro, dove le attività urbane sono più vivaci e si incontra più gente.
Da anni lo gestiva lo stesso proprietario, un nonnino dal naso paonazzo e le guance rubiconde, testimone silenzioso di un tempo che lentamente andava sparendo.
A chi lo conosceva sembrava che la sua immagine, così bonaria e semplice, non si fosse affatto scalfita con il passare degli anni; indossava sempre una sciarpa intorno al collo, un berretto da camera (come si usava una volta), un gilet di lana e alle mani dei guanti senza dita, in modo da poter afferrare meglio gli oggetti.
Sul naso invece portava due piccole lenti appena posate sulla punta, che gli permettevano di osservare quei particolari che altrimenti i suoi occhi non sarebbero più stati in grado di vedere.
Da quanto tempo aveva aperto quel negozio? Nessuno lo poteva sapere.
Sembrava fosse lì da sempre, parte integrante di uno di quei sogni che diceva di vendere.
Ricordo la prima volta che lo incontrai. Avrò avuto si e no 12 anni, la scuola era da poco finita ed ero andato a passare un po’ di tempo insieme al mio amico Carletto. Mentre stavo tornando a casa, lungo la strada, chissà perché i miei occhi si posarono su quella strana iscrizione che campeggiava in alto sulla facciata del negozio; era come se all’improvviso il mondo circostante si concentrasse su quella singolare insegna che, seppur priva di luci, riusciva ad attirare la mia attenzione.
Determinato a scoprire di più su quella scritta enigmatica, pensai che dopotutto avevo ancora un po’ di tempo a disposizione prima di andare a casa, e così entrai nel negozio.
Un gattone grigio occupava con la sua presenza lo spazio vicino alla cassa, tenendo gli occhi socchiusi per adattarli alla luce, forse per controllare che qualche topolino non si intrufolasse tra gli scaffali. Con la sua pelliccia grigia e morbida, sembrava parte integrante del negozio fino a quando non agitava la coda al ritmo di chissà quale melodia invisibile. Era tutto così curioso.Un tintinnio di campanellini annunciò la mia presenza. Appena entrato, con stupore mi accorsi che al suo interno permeava un'atmosfera avvolta da un velo di dolce nostalgia in cui il trascorrere dei minuti e delle ore sembrava non avere alcun effetto: un bancone di legno scuro dominava la scena, insieme a scaffali altrettanto scuri sui quali erano esposti numerosi recipienti di vetro, che portavano l'evidente segno del tempo e della polvere accumulata nel corso degli anni. La luce non era molta poiché dalle vetrine filtrava quel giusto chiarore che consentiva di esaminare l’interno senza perdersi troppo nei particolari, mentre nell’aria aleggiava un odore gradevole, vanigliato, delicato e mai persistente. 
Mi avvicinai ad alcuni vasi per osservarli meglio e forse riuscire a vedere cosa ci fosse al loro interno, ma tanta era la polvere che non riuscivo a scorgerne il contenuto.
Ero troppo preso dall’interesse per quei barattoli che non mi resi conto dell’arrivo del proprietario.
“Ti starai domandando cosa ci sia lì dentro, vero?” Domandò.
Preso alla sprovvista non riuscii a rispondere ma annuii leggermente con il capo.
“Dovresti saperlo, perché magari in qualcuno di quei vasi c’è qualcosa di tuo”.
Quelle parole ebbero l’effetto di aumentare ancor di più la mia curiosità.
Vedendomi così smarrito, decise che era giunto il momento di sciogliere il dilemma.
“Eppure avresti dovuto notare l’insegna. Sogni, qui vendiamo sogni…”
Accidenti, pensai, che occasione. Finalmente avrei potuto realizzarne qualcuno che da tempo mi frullava in testa. Iniziai a pensare quale avrei voluto che si avverasse, ma ero talmente eccitato che invece non me ne venne in mente nessuno.
Il nonnino capì e con discrezione si allontanò.
“Ti lascio pensare, hai a disposizione tutto il tempo che vuoi. I sogni sai non hanno scadenza e quando ti deciderai staranno lì ad aspettarti”.
Riflettei sulle parole e pensai che quel vecchio doveva essere proprio un bel tipo.
Passai il resto del tempo curiosando tra gli scaffali, sicuro che prima o poi un’idea mi sarebbe giunta.
Girai ancora per un po’ all’interno del negozio cercando di trovare un’ispirazione, ma non ci fu niente da fare. Nessun sogno veniva fuori a stimolare il mio interesse.
Nel frattempo si stava facendo tardi e a casa mi stavano aspettando. Salutai il proprietario con la promessa che prima o poi sarei ritornato.

 

2.

Passò qualche anno. Oramai ero diventato un adolescente e in tutto quel tempo passato, ogni tanto mi veniva in mente il negozio e le parole che mi disse il proprietario. Adesso avevo una bicicletta e un pomeriggio di primavera, quando la scuola stava per terminare, decisi di tornarci.
Lo trovai immediatamente, identico a come l’avevo lasciato.
Anche l’interno era rimasto allo stesso modo.
Appena entrato il nonnino mi riconobbe immediatamente:
“Oh, guarda chi si rivede….”
Come faceva a ricordarsi di me pensai, dopotutto mi aveva visto soltanto una volta e poi diversi anni fa.
“Allora ti è venuto in mente quale sogno ti piacerebbe avverare?”
“Veramente ancora no” risposi.
“Stai tranquillo, te l’ho già detto: hai tutto il tempo che vuoi”.
A sentire quelle parole, non so perché mi tornò il disagio di quel giorno, quando non me ne venne in mente nessuno.
 “Ma perché è così difficile sceglierne uno?” Gli domandai.
Si avvicinò con un sorriso dolcissimo, dello stesso sapore della vaniglia che si respirava ancora nell’aria…
Mi rispose: “Figliolo mio, i sogni sono strani. Rappresentano ciò che noi non riusciamo a vedere. Sono eterei, fugaci ma anche amari e a volte irraggiungibili; sono come un viaggio che puoi iniziare in ogni istante per poi cambiare la destinazione in qualsiasi momento.
Ti voglio dare un consiglio: non provare mai ad acchiapparne uno. Potrebbe essere così scivoloso da sfuggirti di mano lasciandoti l’amaro in bocca. Lascia che sia lui a scegliere te”.
“Ma… come faccio a sapere che è lui il mio sogno?”
“Quando entri nel mio negozio vedrai sempre tanti barattoli sugli scaffali. Alcuni grandi, altri piccini. Alcuni sono in alto, irraggiungibili e altri invece più a portata di mano. Il tuo sogno starà lì ad aspettarti e quando ti avvicinerai lo riconoscerai immediatamente senza bisogno di alcun consiglio. Però… sappi che ognuno ha il suo prezzo da pagare”.
Quest’ultima frase mi lasciò sbalordito.
Sapevo che i sogni aiutano nella vita, ma perché pagarli se sono una cosa fondamentale e che in fin dei conti fanno star bene.
 “Come? C’è anche un prezzo da pagare? Hai detto che sono eterei, com’è possibile pagare un qualcosa che è… impalpabile”.
“Non è sufficiente desiderare un sogno per ottenerlo: bisogna anche meritarselo. Se non ci fosse un prezzo, anche simbolico, ognuno avrebbe tutti i sogni che vuole…  e forse anche di più. E allora non ci sarebbe più gusto. Troppi sogni possono far male, la misura dev’essere quella giusta. Devono essere fonte d’ispirazione ma anche un salutare legame con la realtà”.
“E quale sarebbe il giusto prezzo?”
A questa domanda allargò le braccia.
“Non chiedermelo. Non esiste un tariffario. Potrebbe sembrarti troppo, così come potrebbe sembrarti poco: il prezzo di ogni sogno dipende solo dal valore che gli dai”.
Non fece in tempo a finire di parlare che scomparve nuovamente dietro al bancone.
Riflettei sulle sue parole che in ogni caso mi incoraggiarono un po’.
“Non c’è che dire”, pensai “quel vecchio è un ottimo venditore”.
Iniziai a girare per il negozio nella speranza di capire quale sogno prima o poi avrebbe attirato la mia curiosità. Come mi aveva detto, alcuni sogni erano rinchiusi dentro barattoli enormi, altri in quelli più piccoli ma in tutti era impossibile scrutarne il contenuto.
In ogni caso nessuno attirava la mia attenzione.
Notai che il gattone grigio stava ancora là, sul bancone della cassa continuando a sventolare l’aria con la coda; forse sentendo il bisogno di stiracchiarsi un po’ si alzò e arcuò la schiena stendendo le zampine anteriori. Il suo spostamento permise a un filo di luce di attraversare la patina della vetrina e di andare a colpire un angolo dove una serie di barattoli si sottraeva alla vista. A dire il vero li avrei potuti vedere anche prima, ma forse non mi ero accorto di loro preso com’ero dalle parole del proprietario e soprattutto dai miei pensieri.
Mi accorsi di un barattolo più defilato degli altri, che colpito dal raggio di luce parve risplendere di uno strano bagliore o almeno così sembrò. Era chiuso con un drappo di stoffa sfilacciata e tenuto stretto al bordo con uno spago, come si faceva una volta.
Spostai i barattoli che lo coprivano per poterlo osservare meglio.
Era particolarmente singolare: la poca luce che filtrava dalla vetrina creava al suo interno un chiarore misterioso che, a seconda di come lo tenessi tra le mani, cambiava continuamente sfumatura, rivelando arcobaleni dai colori straordinari.
Sentii un brivido di eccitazione attraversarmi il corpo.
Ecco, finalmente avevo trovato il mio sogno.
Lo capovolsi più volte ma non riuscii a trovare il prezzo.
Corsi dal vecchio a chiedere quanto costasse.
Appena lo vide non rimase sorpreso, anzi sembrava sapesse che quel barattolo non stava aspettando altro che lo trovassi. Lo girò e lo rigirò, poi si voltò verso il gatto come se aspettasse da lui qualche risposta.
Sembrava in imbarazzo quando mi disse il prezzo: ”Un soldo”.
Cercai nelle mie tasche… avevo solo 99 centesimi.
Non potevo credere: proprio adesso che avevo trovato il mio sogno.
Così vicino eppure così irraggiungibile.
E tutto per colpa di un centesimo…
Chiesi al nonnino di avere pazienza e di tenerlo da parte perché sarei tornato quanto prima con tutta la somma, sicuro di riuscire a trovare in qualche modo la monetina che mi mancava.
Lui non batté ciglio, prese il barattolo e con lentezza lo andò a posare sul bancone vicino alla cassa, proprio dove al gattone grigio piaceva riposare.
Uscii senza sapere dove andare e come fare per recuperare quella moneta.
Il sole stava per calare e dovevo sbrigarmi. Pensai di andare verso la latteria dove venendo avevo incontrato il mio amico Carletto, che forse avrebbe in qualche modo potuto aiutarmi. Inforcai la bicicletta e andai da lui. I negozi stavano per chiudere e le strade erano affollate. Correvo evitando con cura le persone che camminavano intorno a me. Stavo quasi per arrivare quando un luccichio colpì i miei occhi: a qualche signora mentre faceva la spesa era caduta per terra una monetina, non curandosi poi di raccoglierla. Quel colpo di fortuna mi stava permettendo di racimolare l’intera somma. Mi affrettai a prenderla e immediatamente tornai al negozio.
Entrai che ero trafelato per la corsa ma anche per la felicità di riuscire finalmente ad avere il mio sogno.
Il vecchio mi stava aspettando vicino alla porta. Mi accolse con un sorriso e insieme andammo a prendere il barattolo.
Avevo appena finito di contare le monete quando proprio in quel momento il gattone, nella penombra degli scaffali, intravide un topolino entrato chissà come e di sicuro alla ricerca di qualcosa da rosicchiare. Senza pensarci, d’istinto balzò giù dal bancone verso la preda oramai in trappola. Mentre saltava, inaspettatamente andò a urtare con la coda il barattolo con dentro il mio sogno, facendolo rotolare a terra e mandandolo in frantumi.
Rimasi sconcertato, non sapevo né cosa dire e né cosa fare. Era il mio sogno ed era lì, ai miei piedi, oramai in mille pezzi.
Sconsolato guardavo quei vetri che ancora mandavano riflessi come un arcobaleno spezzato. Con il barattolo si ruppe anche il mio cuore, lasciandomi con un profondo dolore.
“Beh ragazzo, mi dispiace” disse il nonnino, “ti darò indietro i tuoi soldi. Se vuoi te ne posso dare un altro, allo stesso prezzo”.
Non sapevo cosa farmene di un altro barattolo e tantomeno dei soldi. Io volevo quello perché sapevo che lì dentro c’era il mio sogno; un altro non sarebbe stata la stessa cosa.
Sconfortato presi la bicicletta e me ne tornai a casa. Era ora di cena e a breve sarebbe stato buio.
 
3.
Passarono gli anni, divenni adulto e per lavoro dovetti trasferirmi in un’altra città. Raramente riuscivo a tornare nei luoghi dove ero cresciuto e dove avevo lasciato i miei affetti, anche se continuavano a rimanere sempre nei miei pensieri. Un giorno, finalmente, arrivò l'opportunità di poterci tornare per un paio di giorni e non mi lasciai sfuggire l'occasione. Avevo voglia di rivedere la mia famiglia, i vecchi amici e tutti quei luoghi dove avevo passato giorni lieti. Così dopo gli abbracci affettuosi e i sorrisi felici dei familiari, decisi di spendere un pomeriggio girando per le strade della città, che nel frattempo si era ingrandita.

La parte che un tempo era periferia adesso era stata inglobata nel centro abitato. Devo ammettere che facevo una certa fatica a riconoscere quei posti che avevano segnato la mia infanzia e la mia giovinezza, quando all’improvviso mi ritrovai innanzi a uno scorcio che mi sembrò familiare: non potevo crederci, era il negozio del vecchio!

Ovviamente lui non c’era più e anche il negozio aveva cambiato l’uso, in una veste completamente rimodernata.

Adesso vendeva biciclette: da corsa, da passeggio, persino quelle per le scarpinate più faticose sui sentieri di montagna.

Non potei fare a meno di entrare e con sorpresa scoprii che adesso era del mio amico Carletto. La commozione fu tanta nel rincontrarci. Eravamo adulti ma nel nostro cuore batteva ancora l’emozione di una volta.

Entrando nel negozio mi tornò in mente l’episodio di quel giorno, del sogno che per un attimo era stato mio e che per poco non ho visto realizzare.

Chiesi a Carletto che fine avesse fatto il vecchio proprietario. Mi rispose che era da molto tempo che non si vedeva più in giro.

Sapeva solo che dopo avergli ceduto il negozio aveva preso il suo gatto ed era andato via, chissà dove.

Si stava facendo tardi, così salutai Carletto con un abbraccio.

Mentre andavo via, Carletto mi richiamò; si era ricordato che il vecchio proprietario, sapendo che mi conosceva, andando via gli aveva lasciato una lettera per me nel caso, prima o poi, mi avesse rivisto.

Mi voltai con una sorpresa evidente stampata sul volto e presi la busta che mi stava porgendo. Non avevo idea di cosa potesse contenere quella lettera ed ero curioso di scoprirlo.

"È stata proprio una coincidenza fortunata che ti sia ricordato di questa lettera", dissi a Carletto con gratitudine.

Lui annuì con un sorriso gentile. "Sai ho avuto l'impressione ci tenesse che tu la leggessi. Non so cosa contenga, ma ho sempre pensato che potesse essere qualcosa d’importante per te."

Che strana persona era quel vecchio, ricordarsi ancora una volta di me e lasciarmi addirittura una lettera. L’aprii subito.

Era scritta con una calligrafia minuziosa, di altri tempi.

Caro ragazzo,

la delusione di quel giorno nel vedere il tuo sogno infrangersi mi ha rattristato profondamente. Sono stato testimone di come l'attesa alla quale avevi creduto e alla quale avevi legato un pezzo di te stesso, si sia dissolta in un attimo davanti ai tuoi occhi. Ma voglio che tu sappia una cosa importante: i sogni infranti fanno parte della vita, e sono proprio loro che ci aiutano a crescere, imparare e a scoprire chi siamo veramente. In ogni caso non smettere mai di desiderarli, non perdere la speranza e quando si infrangono…beh, raccogli i pezzi e trova sempre la forza per continuare.

E sarà questa forza che alla fine ti farà dire -Quant’è stato bello sognare-”.

Strinsi il foglio tra le dita e con il dorso della mano mi toccai il naso. Avevo le lacrime agli occhi e non volevo che Carletto se ne accorgesse.

Misi il foglio in tasca e in tutta fretta lo salutai con la scusa che a casa mi stavano aspettando.

Ripresi la strada riflettendo sul significato di quelle parole, pensando ancora una volta a quel nonnino, al suo viso e al suo immancabile gattone, e per un attimo mi sembrò di udire ancora una volta la sua voce mentre diceva:

 

Sogni, qui vendiamo sogni…

 

 

Vorrei dedicare questo racconto a tutti coloro che nella vita 

hanno visto il “loro barattolo” andare in mille pezzi.

 

 

 Moreno Blasi

 

 

 

mercoledì 8 marzo 2023

 


“Oggi 8 marzo vorrei omaggiare il mondo femminile con una rosa. Ho scelto la rosa perché per me rappresenta da sempre l'universo femminile; sia quando è ancora un tenero bocciolo o quando la ritroviamo conservata nel tempo tra le pagine di un libro. Pure se correlate a sentimenti diversi, entrambe sanno come evocare la forza di un amore umile, la tenerezza di una emozione che, anche a volerlo, non riesce a svanire.

Delicata ma pungente, la rosa con eleganza si spiega come una spirale, per poi schiudersi a partire dal suo centro, a ricordarci che è da lì che inizia la nostra espansione e manifestazione individuale.

Se sento la necessità di creare un’allegoria tra la donna e la rosa non è per una convenevole arte retorica, ma per introdurre quello che considero il concetto base della femminilità, l’essenza femminile da sempre al centro del mondo spirituale.

Nel corso della storia, abbiamo assistito a una sorta di mascolinizzazione del principio femminile; la donna infatti, nella speranza di ottenere i giusti riconoscimenti e gli stessi diritti dell’uomo, si è travisata rinunciando a quella parte di luce che le apparteneva da sempre.

Mi sembra ovvio affermare che l’essenza femminile non c’entra nulla con il mostrarsi femmine. Anche perché è essa stessa un’illusione: la perfezione del femminile può risiedere in ogni essere umano, un’attitudine che tutti hanno ma pochi ne sono coscienti e quindi non permettono che emerga.

Infatti vedo il femminile come rappresentativo di un potere creativo assoluto e totale; l’indiscutibile custode della luce divina: la scintilla della creazione. Il femminino sacro, la personificazione che attraverso l’Io, consente all’essere umano di ricongiungersi a sé stesso e aprirsi a nuovi modi di sentire il proprio fondamento. Non si tratta quindi di un aspetto esterno dell’essere o del profondo io, bensì dell’ascolto di quel silenzio che conduce la propria essenza alla sensazione del reale. A tutte le donne che mi leggono, il più profondo ringraziamento"

Moreno BLASI

martedì 7 marzo 2023

 Un mondo di donne  

Brindiamo alle donne:
a quelle pazze, ribelli e rompipalle che vedono le cose in maniera caratterialmente diversa dagli uomini.
Possiamo non essere d'accordo con loro,
glorificarle e dileggiarle allo stesso tempo; però, quello che non dobbiamo mai fare è ignorarle.
Perché?
Perché sono loro che da millenni spingono avanti l’umanità e con forza cambiano le cose.
Perciò non continuiamo a vedere insensato il loro comportamento e riconosciamone il valore.
Perché le donne, e solo le donne sono coloro che prima o poi, riusciranno a cambiare il mondo.

a tutte voi buon 8 marzo 

Moreno BLASI

lunedì 17 maggio 2021

Jack Kerouac, un viaggiatore solitario lungo le strade d’America


All’inizio degli anni ’50 gli States sono pervasi da un clima di generale euforia. La guerra è da poco terminata e inizia a diffondersi nell’aria qualcosa di nuovo. Sono anni in cui nei giovani esplode la voglia di creare qualcosa di realmente diverso, 
una coscienza collettiva di libertà e di diversità che finisce con il  confluire nella musica, nell’arte e nella scrittura. In questo clima generale di esaltazione, i ragazzi sentono il bisogno di iniziare una nuova vita che si estrani dai canoni fino ad allora vissuti e che possa oltrepassare quella conformità che gli impedisce di esprimersi liberamente in ambito artistico. 
I ragazzi danzano al ritmo del rock’n’roll, la musica proibita ma un certo malessere inizia ad insinuarsi tra le pieghe della società. C'è il timore che il tanto decantato sogno americano possa frantumarsi sotto i colpi di quella inquietudine. 
Sono gli anni del Ku klux klan e delle lotte per i diritti civili degli Afroamericani, ma sono soprattutto gli anni della Beat generation. 
James Dean ed Elvis Presley sono i miti che riescono ad esprimere i turbamenti e i sogni di libertà di quella generazione, ma nessuno meglio di Jack Kerouac riuscirà a rappresentarne il simbolo stesso, l’icona immortale dell’idea di quella vita inquieta e sfrontata vissuta al di fuori delle convenzioni imposte dalla società. 

Jean-Louis Lebris de Kerouac, meglio conosciuto come Jack, nasce a Lowell, Massachussets nel 1922. La sua è una famiglia di stampo profondamente cattolico originaria del Québec; nell’ambito familiare si parla il joual, un dialetto canadese e il francese rimarrà sempre la sua lingua madre. Durante gli anni del liceo si afferma come campione sportivo, attitudine che gli darà modo di frequentare New York la prestigiosa Columbia University , dove incontra due scrittori con i quali instaura un rapporto di amicizia che durerà per tutta la vita: Allen Ginsberg e William S. Burroughs, insieme interpreteranno le figure seminali del movimento Beat.

La Beat generation è il primo movimento artistico del dopoguerra che si pone in una netta posizione di protesta nei confronti della società conformista di quegli anni. Jack Kerouac ne diviene immediatamente uno dei punti di maggior riferimento. E sarà proprio Kerouac a tenerla a battesimo, prendendo (pare) il termine da Herbert Huncke: significa “down-and-out” indicando così il fondo dell'esistenza (dal punto di vista finanziario ed emotivo) oltre che “beatific” suggerendogli un valore più alto dal punto di vista spirituale, ma soprattutto una particolare apertura nei riguardi del linguaggio scritto, eleggendo ad arte le esperienze della propria vita. 

Già da tempo aveva sentito il suo spirito girovago prendere il sopravvento. Negli anni della guerra si arruolò nella marina mercantile come semplice marinaio, esperienza che lo portò a visitare vari porti mediterranei ed atlantici. Dopo un anno passato in mare torna a casa per scrivere il suo primo romanzo, "La città e la metropoli", lavoro che gli dà un discreto successo ma non ancora la soddisfazione che cerca. 

La sua ambizione non è quella di divenire uno scrittore affermato pieno di ricchezza e rispetto, ma di riuscire ad arrivare ad una capacità interiore che gli consenta di originare una scrittura poetica e impressionista con la quale descrivere tutta la varietà e la diversità della cultura Americana. Non ce la fa a rimanere chiuso in una stanza a pensare; vuole acquisire attraverso il viaggio una conoscenza profonda che lo traghetti sino all’essenza della vita stessa. Sente dentro di sé che c’è ancora un’America cruda e primitiva che nessuno vuole più cantare, dove però lo spirito è rimasto indomito e non ancora plasmato dall'infaticabile macchina del materialismo moderno. 

Lui lo sa che i tempi stanno cambiando e che qualcosa sta agitando quell'America conservatrice sempre più coinvolta nell’intrico della guerra fredda. 

Kerouac decide di inseguire e rincorrere i propri pensieri ed emozioni con il loro originale ritmo. Passa molto tempo sulle carte geografiche e a studiare i libri sui grandi pionieri della storia americana. Vagabondare diventa parte essenziale della sua reputazione, un modo per affermare la libertà in un periodo nel quale la paranoia ed il sospetto vigono nella maggior parte degli americani. Non si limita ad andare da un luogo a un altro degli USA, ma vuole viaggiare alla ricerca e scoperta di sé mediante l'abbattimento di ogni barriera prestabilita. Avverte che al di fuori della città inizia un territorio sconosciuto, dove tutto è da scoprire a cominciare da sé stessi. Inizia a sentire che la casa dell’anima non è nel paradiso, ma nella strada aperta; immagina il suo spirito come quello di un viandante in perenne cammino.

Quello di viaggiare verso l’ovest era stato un suo sogno antico e i nomi dei fiumi, delle città e degli stati eccitano da sempre la sua immaginazione. Con il viaggio intende misurare il territorio americano, vivere nel suo splendore e bellezza; vuole respirare a fondo l'”odore forte dell’America”.
Si identifica con i primi pionieri americani, o negli Hobo, quella sorta di girovaghi che ritiene essere i custodi del vero spirito della libertà.
Quest'esperienza gli darà lo spunto per scrivere "Sulla Stradail libro che gli procura immediata fama e successo; a quasi sessant’anni di distanza dalla prima pubblicazione, rimane uno dei testi di riferimento della cultura del secolo scorso, mantenendo inalterata tutta la propria vitalità, continuando tutt’oggi ad indicare al lettore un nuovo modo di vedere il mondo. Il romanzo narra i viaggi compiuti tra il 1947 e il 1950 negli Stati Uniti e in Messico, insieme al suo amico di sempre Neal Cassady
Vivranno insieme la verità dell’asfalto, un’esperienza che li farà sentire sulla soglia di una nuova percezione. Il libro diviene subito un testo di riferimento, il manifesto della "Beat Generation". 
Pagine che attraverso suoni, sapori e profumi rapiscono ancora l’immaginazione, proiettando di colpo il lettore oltre l’orizzonte americano. "La strada è la libertà e io parlo in nome della libertà, parlo in nome dell'esperienza, parlo in nome della vita. Parlo in nome di tutte le strade che attraversano l'America in un immenso, infinito sogno che si scontra con il santo incanto infinitesimale della creazione. Quel vasto mare della fratellanza che sottolinea l'essenza, la nascitura quintessenza dell’universo. Parlo in nome delle strade, dello Zen, della torta di mele, dei truffatori, degli sfruttatori, del folle pazzo jazz, delle fermate di autobus, dei poliziotti, dei criminali e di tutto quello che ti passa accanto mentre tu cammini e continui a stare a metà strada tra il paradiso e l’inferno”.
Colpisce il suo tipo di narrazione scattante, tenuto insieme dalla presenza di un Io narrativo, sempre lo stesso ma ogni volta diverso: la prosa spontanea.
Uno stile apparentemente senza regole che segue dei principi fondamentali dettati dallo stesso Kerouac e che prevedono libertà mentale: "Prima soddisfa te stesso, poi al lettore non mancherà lo choc telepatico, la corrispondenza significante perché nella tua e nella sua mente operano le stesse leggi psicologiche"
Il genio dell’autore infiamma l’America, ma per Kerouac sarà l’inizio della fine. Inizia a chiudersi sempre più in sé stesso. 
Si lamenta "non hanno capito niente. I miei viaggi, le donne, le droghe e gli eccessi sono tutte metafore. La strada è sacra. E’ un modo per arrivare alla redenzione, ma loro nel whiskey vedono soltanto whiskey, nelle notti d’America soltanto buio. Invece c’è luce".   
Scrive diversi altri libri, tra cui "
I vagabondi del Dharma" nel 1958 (un periodo in cui Kerouac è fortemente influenzato dalla religione buddista) e una raccolta di poesie intitolata "Mexico City Blues" pubblicata nel 1959. Negli anni successivi fino alla morte, Kerouac vive combattendo contro il suo fisico indebolito dall'alcol e da una vita di eccessi.
Oggi si ritiene che il suo contributo letterario, oltre che sociale, sia stato assai più profondo e importante rispetto ai giudizi che l'avevano inizialmente emarginato nei confini della controcultura americana. 
"Niente alle mie spalle, tutto davanti a me, come sempre sulla strada"(Jack Kerouac, "Sulla Strada")
Intere generazioni hanno preso a modello Kerouac, e, in automobili malconce, camper improvvisati, in autobus traballanti o su treni affollati di umanità, hanno esplorato il mondo. 
In fuga dalle delusioni politiche o alla scoperta della dimensione mistica orientale, i seguaci dei personaggi di Kerouac sono straripati dalle pagine del romanzo invadendo il mondo reale. Accompagnati da una colonna sonora che ne rispecchia le aspirazioni e la vitalità, con gli occhi sempre puntati all’orizzonte, diretti al West degli spazi aperti o al mitico oriente, hanno reso a Kerouac il più grande omaggio che si possa rendere ad uno scrittore: hanno preso il suo messaggio alla lettera. 
In un’epoca di inclusive tours e di viaggi organizzati fin nei minimi dettagli, le pagine di Kerouac ripropongono un irrinunciabile gusto dell’avventura, delle grandi distese, dell’esplorazione e della libertà. 
Sullo sfondo di quel paesaggio americano ormai impresso nell’ immaginario di ciascuno di noi.

 

 


Jack Kerouac
     
            March 12, 1922  October 21, 1969              



 



Moreno BLASI

quattro anni di attesa....

Vorrei scusarmi con tutti coloro che malgrado il "vuoto" di questi anni, hanno continuato a visitare il mio Blog. 
Le ragioni del mancato appuntamento con voi sono state molteplici. Aldilà degli accadimenti (la vita si riserva  sempre la cautela di tenerceli nascosti sino all'ultimo istante), avviene che a volte, preso dal caos della situazione, scrivere qualsiasi pensiero diventa una vera impresa, specie quando la vecchia idea che ho appena dettato, muore prima ancora che nasca la nuova, creando un interregno dove  un presunto lettore, nascosto dietro la pagina, sembra dirmi “non puoi impormi la tua confusione, ne ho già abbastanza della mia”. 
Ragione per cui spesso mi ritrovo confuso e impegolato a passare da un'idea traballante all'altra, finché non precipito nel disorientamento più totale.
D'altronde chi scrive lo sa: la storia della scrittura è  intrisa di caos, contradizioni seguite poi da momentanei riscatti, in un’irrequieta altalena carica di emotività. 
Sono certo che non ci sono mai state eccezioni, in quanto per arrivare alla soddisfazione, di qualsiasi tenore essa sia, si deve per forza superare ogni concetto precedente, cercando sempre di oltrepassare il limite prefissato; ogni avvicendamento raffigura un salto più alto nella consapevolezza della storia, che per quanto  positiva, comporta un rito di passaggio obbligatorio da affrontare, un periodo di incertezza nel prosieguo della vicenda. 
Ecco perché spesso ogni sogno si trasforma in delusione. 
Poi in fin dei conti, a cosa ci serve una storia scritta: forse a far passare il tempo, oppure ad immergersi in un mondo che in genere ci piace più di quello reale (a volte anche di meno). 
Per qualcun altro invece è qualcosa che serve ad imparare, ma se servisse solo a quello sai che noia...e allora che sollievo chiudere tutto e tornare alla realtà. 
Concludo con la promessa di tornare a breve con nuovi argomenti, lasciandovi il pensiero di come sarebbe bello se tutto il paese fosse disseminato di piccoli luoghi, di tabernacoli dove chiunque potesse sostare per un’ora leggendo un libro e poi meditare su di esso.



Moreno BLASI


mercoledì 18 ottobre 2017

George Orwell e 1984




Nel 1948 George Orwell scrisse il suo romanzo più famoso: 1984
1984 nella sua forma romanzata appartiene a pieno diritto al genere distopico (narrazioni fantapolitiche e antitotalitarie dove vengono raffigurate rappresentazioni di società future portate ad estremi negativi).
Seguendo questa linea, Orwell ci proietta in un futuro parossistico, in una estremizzazione in negativo della civiltà dove nell’indifferenza generale si assiste al decadimento della democrazia.
Spesso 1984, a torto, è stato considerato (al pari di altri romanzi di genere come Brave new world di Aldous Huxley, o The iron heel di Jack London) un libro di fantascienza.
In realtà il libro è la denuncia di chi come Orwell aveva combattuto i regimi totalitari (lo scrittore prese parte alla guerra civile spagnola nelle file del Partito Operaio di Unificazione Marxista, contro il dittatore Francisco Franco); un urlo del pensiero critico contro un “politichese” fatto d’indifferenza che, oggi come allora, si sta impadronendo dei mezzi di comunicazione. 
Ma perché George Orwell scrisse 1984?
L’idea del libro gli venne nel 1943, in pieno conflitto mondiale.
In una lettera datata 1944, Orwell aveva già bene in mente i temi che cinque anni più tardi avrebbe trascritto con la pubblicazione di 1984.
Nel 1948 il conflitto mondiale era da poco terminato; l’umanità si ritrovava distrutta in un mondo dove la guerra aveva frantumato ogni speranza di progresso.
La guerra aveva segnato un taglio netto con il passato. Aveva dimostrato come pochi al mondo avevano potuto gestire la “cosa pubblica” distruggendo ogni tipo di organizzazione democratica, in una società formata da caste. Tutto ciò aveva portato con sé gli orrori del nazionalismo più emotivo e la tendenza a non credere più all'esistenza di una verità oggettiva, perché tutti i fatti erano in sintonia con le parole o le profezie di un "fuhrer" infallibile. L’uomo, da membro di una società, si era ritrovato ad essere un ingranaggio all’interno di una “macchina della morte” mossa dagli interessi di partiti senza volto.
Tutti i movimenti nazionalistici del mondo, anche quelli che nascevano dalla resistenza, avevano assunto forme non democratiche, raggruppandosi attorno ad una figura superomistica e nascondendosi dietro la teoria che il fine giustifica i mezzi. 
Orwell riversò tutte queste ansie all'interno del romanzo.
Il libro si svolge in una società immaginaria, altamente indesiderata e spaventosa nella quale la tendenza sociale, politica e tecnologica viene portata ad estremi negativi.
La Terra è divisa in tre potenze guidate da regimi totalitari: Eurasia, Estasia e Oceania, in continua guerra tra loro.
I cittadini sono sottoposti ad un costante controllo sulle azioni e sui pensieri: dovunque sono disseminate telecamere e microfoni finalizzati a individuare ogni minima forma di dissenso nelle espressioni o nelle parole (si parla la Neolingua, un mezzo espressivo che sostituisce la vecchia visione del mondo e le vecchie abitudini mentali, rendendo impossibile ogni altra forma di pensiero), mentre manifesti e schermi mostrano l’immagine baffuta del “Big Brother”, 
il volto del partito, i cui occhi sembrano seguire ognuno con il monito «BIG BROTHER IS WATCHING YOU».
In questo contesto si sviluppa la vicenda di Winston Smith, un impiegato del ministero della Verità che vive con malessere la sua condizione all’interno del regime. I suoi incessanti sentimenti e il suo desiderio di libertà prendono forma nello stendere giornalmente un diario. In Julia, una ragazza che condivide i suoi stessi sogni, riversa l’amore, sentimento inviso al regime. La volontà di godere della libertà di vivere e amare, li spinge ad unirsi ad un gruppo segreto di dissidenti, il cui capo si rivelerà essere una spia del governo. Sottoposti a torture fisiche e mentali, i due si tradiranno a vicenda. Il lavaggio del cervello è stato compiuto, non rimane che l'amore e l'ammirazione per il Grande Fratello.       
In 1984, come in quasi tutte le opere utopiche e distopiche, le immagini si proiettano in un futuro cupo dove la cultura, soprattutto nella forma letteraria e poetica, è annullata dal Potere assoluto. Questo perché l’arte è ritenuta un’espressione del pensiero, della fantasia, della conoscenza di ciò che avviene; troppo pericolosa per essere lasciata incontrollata. Per questo sono proprio le pagine di 1984 ad offrire un messaggio di speranza: la letteratura e la cultura sono l'unica utopia possibile e sarà solo scrivendo, leggendo e pensando che 1984 non si avvererà mai.        
Moreno BLASI